Passione popolare – Convegno di studi Acli, Roma 16/17 settembre
Si è svolto a Roma il 17 e 18 settembre il Convegno Acli, Passione popolare. La persona, le Acli, il popolo: la democrazia scritta e quella che scriveremo.
Qui di seguito la Relazione finale.
Premessa. Lampedusa, Marcinelle, Amatrice
Ci sono luoghi dove la vita si manifesta con rabbia, con una forza incontrollabile e misteriosa, che taglia in due: chi si salva e ricorda e chi si perde. Abbiamo da poche settimane ricordato Marcinelle in Belgio: come ogni anno, perché noi – noi, lavoratori italiani – ricordiamo i nostri lavoratori italiani emigrati in una terra a cercar fortuna o, più semplicemente, vita1. E con la stessa attitudine noi ricordiamo i lavoratori stranieri che oggi cercano di arrivare in Italia: se sono fortunati, se raggiungono Lampedusa… E queste sono altre tragedie, dove il Mediterraneo si manifesta a noi come cimitero a cielo aperto, come luogo dove troppe famiglie si spezzano e troppe vite si trasformano in avventura per chi arriva e in paura per chi si trova a gestire un immane esodo che, sì, forse ha davvero le stesse caratteristiche dell’esodo della “nostra” Bibbia. Popoli che si spostano, popoli che camminano e che sperano contro ogni speranza. A Marcinelle si muore sottoterra, a Lampedusa nel mare: ad Amatrice per opera della terra. Ma non è la natura a far sempre la differenza: perché si contano i morti sia per la sua forza sia per l’incuria dell’uomo. Il coraggio e la generosità di chi in questi giorni continua a lavorare non nasconde le responsabilità della politica.
Mino Martinazzoli soleva ripetere che la politica conta, ma la vita conta di più. E anche noi potremmo ribadire che la politica conterebbe di più se si interessasse con responsabilità della vita: se a tutti e a ciascuno la politica offrisse le condizioni perché la vita – dono naturale e promessa – sia vita dignitosa2, dono politico, premessa di una vita da vivere. Questo è il compito della politica, a cui attendiamo anche come associazione di lavoratori, come popolo aclista. E come aclisti ci corre anche il ribadire che tante volte la politica ha mantenuto le sue promesse; e tante altre volte le ha consegnate all’incuria. Ecco allora perché Marcinelle, perché Lampedusa, perché Amatrice: luoghi simbolici di condizioni umane che si spezzano3 e che ci pongono di fronte a qualche responsabilità politica, al dramma della politica, sospesa tra principi astratti e realtà quotidiana.
Il popolo, il populismo e il riformismo
Sì, la politica è tutto ciò che abbiamo per proteggerci dalle minacce prevedibili e imprevedibili, per costruire una città dove tutti sentano un’appartenenza, un senso di vita (ecco la politica che contempla la vita), una desiderata dignità. È la politica che frena le pulsioni collettive di morte e i desideri narcisistici individuali. Lo fa valorizzando la scienza, la tecnica, la conoscenza e perfino l’emotività, dove si agita una parte della nostra intelligenza. E lo fa trasformandosi in norma giuridica, in istituzione: il bisogno si fa diritto e dovere, reciprocità, progetto, organizzazione. Potremmo allora dire che in ultima istanza sono le istituzioni a garantire la promessa della vita, a tutelare le nostre vite personali. Eppure in questi anni osserviamo un’opera di continua delegittimazione delle istituzioni. Molte di esse, anche di quelle scritte col sangue del popolo stesso, raggiungono una popolarità di un qualche zerovirgola, con un dibattito che spesso contrappone l’istituzione al popolo. E noi a questo non ci stiamo.
Certo il popolo è anche istinto. Perché il popolo vive, sente, percepisce, si muove. Si pensi a quante volte il popolo ha rovesciato le sorti del cattivo governo, della dittatura, emancipando le classi più povere con nuove forme di giustizia. Si pensi agli anni Novanta, quando alla globalizzazione neoliberista ha fatto fronte un popolo di giovani e meno giovani realizzando iniziative, cercando nuovi linguaggi, riprendendo a parlare di beni comuni, di diseguaglianze e ingiustizie: lì c’eravamo
1 Una vita che troverà morte nei cunicoli di una miniera…
2 Il desiderio di una vita dignitosa si fonda sulle categorie della politica, invece per una vita degna occorre chiamare in causa altre categorie (che in
questa sede non affrontiamo).
3 È simbolica quella terribile immagine di una via di Amatrice, dove gli abitanti di un lato si sono salvati e gli altri periti.
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anche noi, a dire o a scrivere che un nuovo mondo era possibile4. L’istinto del popolo non va considerato sempre in termini negativi, anzi. Di fronte alla freddezza di chi decide col gelido cinismo di qualche interesse (anche criminale) privo di ogni valore morale o sociale, ecco il calore del popolo: la rabbia di fronte alle ingiustizie è ancora una risorsa per le nostre democrazie. Ma è un’energia che va maneggiata con cura. Istinto e sentimento – si sa – non si reprimono, pena gravi danni: vanno accompagnati con la freddezza della “testa”, del ragionamento, dell’educazione, della formazione. Un popolo è veramente tale quando istinto, cuore e testa si accordano per dare forza e intelligenza alle decisioni.
Questa opera di cura, di formazione, di accompagnamento è sempre stata fatta – nel corso della storia repubblicana – dai partiti politici di massa, dai sindacati, dalle associazioni, perfino dalla Chiesa. Una preziosa opera di mediazione che ha consentito di selezionare i temi, di discuterli in termini politici, di selezionare una “classe dirigente” capace di gestire processi politici e di essere coperta dalla legittimità popolare. Non è affatto un caso che i nostri Padri costituenti abbiamo collocato i “corpi intermedi” – le formazioni sociali – all’art. 2/Cost.5: essi erano consapevoli del loro ruolo nella realizzazione della democrazia. E ce ne accorgiamo oggi, quando i partiti appaiono l’ombra del loro passato, i sindacati percepiti come burocrazie che “rovinano il Paese”6 e le associazioni costrette al massimo a svolgere una funzione di coesione sociale… Corpi liquidi per masse liquide7.
Oggi la liquidità di questi corpi intermedi determina quella “natura dissonante e divergente del dibattito”8 che rende perfino la grande conquista del voto libero un elemento di una perpetua mobilità9 che sfocia nell’instabilità elevata a sistema, nella continua e inutile rincorsa ad un consenso spesso selvaggio, emotivo, rancoroso: non mediato. A mediare col popolo – a spiegare i temi, creare il consenso, formare le coscienze – rimangono i mezzi di informazione: ma i mass media fanno veramente mediazione? I temi sono ridotti alla logica del televoto, del sì e del no, e le leadership10 sono delegittimate, private di un attributo di utilità e rese caricaturali da una descrizione a base di privilegi che le rende insopportabili e ideale bersaglio di ogni campagna antipolitica. Rimane il potere carismatico11, ma questo non basta di fronte alla complessità delle sfide del mondo contemporaneo. Senza mediazioni la politica si rivolta nel suo contrario, in antipolitica.
Così lo scenario popolare si riempie di politici che urlano, denigrano, accusano, si colorano i capelli, “la sparano sempre più grossa” per accontentare un popolo che si vuol regredire a pubblico di uno spettacolo dove questioni vitali si giocano nello spazio rapido di qualche battuta: la Brexit, le elezioni americane, la Siria, la Libia, l’Isis, l’esodo degli immigrati, la crisi economica, il terrorismo… Basterà qualche battuta o dichiarazione, magari anticipata su Facebook, per entrare nel
4 Il World Social Forum, che radunava oltre 140 paesi, di fatto termina tra il G8 di Genova (2001) e la contestazione della guerra contro l’Iraq. Oggi, forse, gli eredi sono Podemos, Syriza, gli Indignados, Occupy Wall street…
5 La Repubblica (e non solo lo Stato) riconosce (riconosce… non istituisce: si limita a prendere atto) e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali (eccoli qui, i nostri corpi intermedi: eccoci qui, potremmo dire) ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. È un articolo che collocato dove è collocato, dice molto dello spirito della Repubblica.
6 Il riferimento è il testo scritto da Marco Bentivogli, Abbiamo rovinato l’Italia? Perché non si può fare a meno del sindacato (Castelvecchi, 2016), dove si parla (anche) di come rappresentare l’Italia che lavora. Libro assolutamente da leggere, se non si vuole cadere nei soliti luoghi comuni sul sindacato. Magari lo regaliamo a qualcuno…
7 Ho qui ripreso un pezzo molto interessante di Massimo Salvadori, sul Corriere della Sera, intitolato Disordine democratico: […] i nuovi partiti di massa dei diversi orientamenti accompagnarono il processo, organizzarono le schiere crescenti degli iscritti e degli elettori, costituirono sedi permanenti sul territorio divenute luoghi di socializzazione e di discussione, si dotarono di una gerarchia che dal basso arrivava alla élite passando attraverso una struttura di quadri intermedi. Le masse informi presero così forme […]
8 La “natura dissonante e divergente del dibattito” è un’espressione di Giovanni Orsina che ne Il girotondo delle democrazie (La Stampa 5-lug-16) riprende il tema dell’instabilità politica (con una interessante intuizione, tra l’altro, sul rapporto tra democrazia e verità).
9 … forse l’unica vera mobilità in Italia è quella del voto, perché invece quella che promuove il ceto popolare si è bloccata: ma era questa la mobilità che perseguivamo, non quell’altra…
10 Il tema delle leadership, delle élite necessiterebbe di un approfondimento, che non faremo in questa sede ma che promettiamo di fare.
11 Il potere carismatico, così come lo descrive Max Weber, è un potere diretto, tra il leader e il popolo, senza le mediazioni dei corpi intermedi e
neppure quelle delle élite.
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profondo di processi politici che cambieranno le nostre vite? Questo è il limite. Questo è il populismo, capace di amplificare il problema, l’eccezione, il difetto, come nelle caricature, dove il naso grande o la testa piccola diventano l’unico tratto della vignetta, dove la parte diventa il tutto12 , perché così tutto è sbagliato, tutto è da rifare; dove la soluzione è sempre semplice e magari richiede un po’ di violenza. Come si scrive nel Manifesto di questo Incontro, ci sono due modi per ascoltare il popolo. Il primo è una scorciatoia: ascoltare le paure e amplificarle, dar loro uno spazio sproporzionato e scaricare su “altri” (la politica, le istituzioni, gli stranieri, le leggi) le colpe. Il secondo è una via curva, capace di far crescere un progetto assieme ad altri, capace di sortire insieme dai problemi e di vivere la fatica del dialogo. Noi ascoltiamo la voce del popolo nel secondo modo.
Lo sappiamo bene anche noi, e per “fedeltà”: il popolo va sempre ascoltato. Però, se è vero che nel popolo trova fondamento ogni democrazia, c’è modo e modo per ascoltarne la voce. Il primo articolo della nostra Costituzione dice che la sovranità appartiene al popolo: ma subito specifica che questa volontà si esercita nelle forme previste dalla Costituzione stessa. In altre parole il popolo parla attraverso le sue istituzioni. È una mediazione necessaria per (con)temperare la pluralità di opinioni e culture, di condizioni e vite reali. È questa mediazione che consente al popolo di disporre degli adeguati strumenti per combattere sia le trame di qualche minoranza sia i desideri illimitati di qualche maggioranza.
Lo sappiamo bene anche noi, e per esperienza, che non tutte le leggi sono “giuste” e che non tutte le leadership e le istituzioni operano per il bene comune. Per questo combattiamo le istituzioni ingiuste, che rischiano di perpetuare l’ingiustizia sociale e politica. Ma non combattiamo l’idea di istituzione: noi difendiamo l’istituzione perché è il modo più sicuro che abbiamo per difendere il popolo. Le istituzioni possono essere modificate, cambiate, adeguate: riformate. È in questo senso che ci diciamo riformisti: perché non crediamo all’immutabilità delle situazioni e delle leggi, non crediamo all’immobilismo e all’assolutismo; perché rivendichiamo il relativismo delle cose di questo mondo, perché sappiamo che il mondo cambia e anche lo Stato si può cambiare. Perché senza un’adeguata manutenzione istituzionale la politica si rovescia in antipolitica.
Peraltro noi cattolici non abbiamo mai creduto all’idea di uno Stato scolpito nel cemento armato di un qualsivoglia potere – che fosse di razza, di classe o di status – com’è stato nella fissità dei totalitarismi. Noi abbiamo sempre creduto nello Stato come essere sovrano capace di mutare per accompagnare il bene delle persone e delle politiche: uno Stato che vive per accompagnare il progresso sociale, capace di restringersi e allargarsi a seconda dei tempi e delle necessità dei soggetti sociali. Per questo potremmo affermare almeno due cose. La prima è che a volte c’è bisogno di più Stato, a volte meno: noi abbiamo sempre difeso lo Stato (di diritto), ma uno Stato non si difende solo con le istituzioni statali, perché la Repubblica è un concetto più vasto, che chiama in causa anche altri soggetti, dagli enti territoriali alle organizzazioni del civile. La seconda è che essere Stato significa essere “in situazione”, collocati nella realtà di un particolare momento; un’astrazione che diventa concreta al momento opportuno. Non è casuale che la parola Stato sia un participio passato, perché indica una condizione meditata dell’essere, un cambiare che tiene conto di ciò che è accaduto: per questo possiamo affermare il paradosso che un vero Stato non è mai nello stesso stato.
12 Se si trova un politico ladro, il populismo è quell’istinto che fa dire che tutti sono ladri; così se uno straniero compie un reato, qualcuno trova la buona occasione per dire che il problema centrale sono gli stranieri… L’episodio diventa la spiegazione del “tutto”. I titoli di certi giornali spiegano meglio di qualunque trattato.
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Voglia (e volontà) di riforme
Cosa cambiare, dunque? La riforma propone di cambiare parecchie cose negli organi istituzionali, soprattutto statali. Se la Prima parte della Carta ci appare ancora oggi intoccabile, non c’è dubbio che la Seconda abbia invece bisogno di una robusta manutenzione, soprattutto sul potere legislativo. Anzitutto verso il Parlamento, la cui iniziativa necessita di maggiore efficienza. Il bicameralismo perfetto in questi anni ha di fatto impedito al Parlamento di esercitare pienamente la funzione legislativa prevista dalla Costituzione stessa per consegnarla alla decretazione del Governo. Non ha aiutato la riforma del Titolo V del 2001, con una certosina attribuzione delle competenze esclusive e concorrenti nel rapporto tra Stato e Regioni. Ma soprattutto sono apparsi sulla scena nuovi attori deliberanti, dall’Onu (che ogni tanto mette in crisi il nostro art. 11/Cost.) all’Ue (che ogni tanto condiziona la nostra autonomia). In altre parole, la creazione della norma giuridica è diventata assai complicata, in uno schema dove il lavoro del Parlamento è bloccato. Eliminare il bicameralismo perfetto e riscrivere le competenze tra Stato e Regioni ci pare un bene.
Così come ci pare un bene ridurre enti che appaiono poco efficienti13, ridurre la spesa, dare più serietà all’iniziativa popolare referendaria. Più incerte ci appaiono le propose sull’equilibrio dei poteri, che sembrano dare troppo rilievo al Governo soprattutto nel combinato disposto con l’attuale legge elettorale. Gli esiti finali di questa robusta serie di cambiamenti – per come noi l’abbiamo analizzata in Direzione nazionale – sono difficili da immaginare sul lungo periodo. Ma sul breve ci rendiamo contro che lasciare tutto uguale metterebbe in difficoltà il lavoro dell’Esecutivo che – a partire anche dal lavoro del Governo di Enrico Letta – si sta impegnando per interrompere la condizione di inerzia di questo nostro Paese. Il Governo Renzi – che nasce anche per promuovere le riforme14 – potrà anche “non piacere”, ma abbiamo anche bisogno di stabilità, responsabilità e innovazione. Sul medio periodo un esito negativo quasi certamente inciderà sulla spinta riformatrice, rimandando a data da destinarsi una stagione che – dagli anni Novanta in poi – ha chiesto alla politica di cambiare i propri schemi. In particolare dal termine del governo Berlusconi in poi si è politicamente affermata l’esigenza di concludere il cammino delle riforme. Noi aclisti siamo sempre stati su questa strada, fin dal referendum Segni degli anni Novanta.
Non sappiamo se tutto questo inciderà anche sull’Ue e sul sentimento di declino che abita in molti di noi dopo l’esito del referendum britannico. La Brexit è un episodio in controtendenza rispetto ad una volontà che – dal 1945 ad oggi – disegnava un trend univoco e positivo. Non vorremmo che questo referendum assumesse lo stesso valore simbolico che la Brexit è valsa per il Regno Unito. Forse è questo che fa dire a Stiglitz che sarebbe addirittura meglio cancellare il referendum italiano, se non si vuole correre il rischio di un esito dannoso per la moneta unica e – più in generale – per il progetto europeo15. Certamente ci sono anche ragioni per non cambiare. Il Paese, in fin dei conti, potrebbe andare avanti lo stesso anche così.
Ci preoccupano però i toni del dibattito, che si è ideologizzato e non riesce a cogliere il merito delle riforme: in realtà si tratta di un normale confronto politico sul modo con cui disegnare le istituzioni. Avremmo auspicato un approccio riformista più condiviso, ma non ci dispiace neppure la vivacità del pluralismo. Anche all’interno delle Acli, soprattutto nelle province e nelle regioni, il dibattito è (stato) serrato: siamo plurali e siamo orgogliosi di esserlo. Soprattutto siamo orgogliosi di avere riscoperto la nostra originaria funzione formativa come movimento di pedagogia sociale e costituzionale: il vero dato politico, per noi, è stato proporre in modo oggettivo e qualificato il
13 Con un certo rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere il Cnel, luogo dove sono presenti gli attori non partitici ma di responsabilità sociale. Tra l’altro eravamo presenti anche noi (e con molta dignità).
14 Molti commentatori politici hanno ricordato che il Presidente Napolitano chiese espressamente al Governo Renzi di lavorare sulle necessarie riforme.
15 Si tratta di un’intervista che Joseph Stiglitz ha rilasciato al sito Business Insider (uk.businessinsider.com, “[…] a “disastrous” political event similar to the United Kingdom’s decision to leave the European Union could trigger such a collapse”. La notizia in Italia è pubblicata sul Corriere della Sera del 23 agosto 2016.
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merito delle riforme ai nostri concittadini. Poi occorrerà prendere anche una posizione, perché non possiamo non avere un parere qualificato, noi che siamo fedeli alla democrazia, noi che contribuiamo a sostenerla e che “ce ne intendiamo”, noi che non ci asteniamo. Lo stato del dibattito interno su questo tema ci fa prendere atto che attualmente l’orientamento va nella direzione di dare un giudizio positivo alle proposte di riforma. È nostra intenzione attendere che si concludano i tanti confronti ancora in corso sui territori per esprimere una posizione chiara e motivata.
Non nascondiamo che ci aiuterebbe molto, nel dare un sostegno all’ipotesi, sentire che questa volontà riformatrice non sia un capriccio istituzionale, una voglia. Ci piacerebbe che anche rispetto ai temi a noi cari potessero essere accelerati e portati finalmente a termine i processi riformatori. Magari insieme! La politica, su alcune riforme, potrebbe dare un segnale positivo di unità, coinvolgendo anche la società civile organizzata. La riforma della Seconda parte della Costituzione non è per noi il punto principale16: ciò per noi che conta è cambiare le strutture del Paese reale, le strutture di ingiustizia o – anche più semplicemente – il disallineamento tra i provvedimenti e il Paese reale. Per questo auspichiamo e chiediamo con forza di intervenire sulle seguenti tre riforme.
La prima ha a che fare con la composizione del popolo, ovvero con i diritti di cittadinanza. Da anni siamo protagonisti di una campagna per attribuire i diritti e i doveri di cittadinanza non solo per sangue, ma anche per territorio e per cultura. L’Italia sono anch’io è una battaglia che ancora c’impegna. C’impegna perché la legge in Parlamento non è stata ancora approvata. C’impegna perché la questione non è solo offrire qualche diritto a qualche straniero. Certo, anche questo, ci mancherebbe! Ma riconoscere la cittadinanza agli stranieri nati in Italia, offrire il diritto di voto amministrativo a chi è residente e produce reddito, significa almeno prendere atto dei tempi che viviamo; significa porsi nel solco dei fatti storici e favorirli; significa saper creare una comunità per differenza e non per repressiva omologazione. Le guerre, le carestie, il terrorismo: i profughi e i rifugiati che affollano le nostre coste e lambiscono i confini delle nostre paure – veri scarti umani, nella più parte dei casi – non ci possono lasciare indifferenti sul piano politico-istituzionale. Neppure su quello morale, certamente: ma chi fa politica deve sapere che i tempi cambiano e le strutture, se non si adeguano, rischiano di divenire scivolosi piani inclinati dai quali non si risale più. Se non stiamo attenti, le strutture di grazia si tramutano velocemente in strutture di peccato. In questo secolo il popolo italiano, più che una comunità di provenienza, sarà una comunità di destino. Per questo continueremo nella nostra opera di convincimento verso i parlamentari italiani per l’approvazione della legge sullo ius soli e lo ius culturae.
La seconda ha a che fare con il sostegno alla parte più fragile del popolo, i poveri assoluti. E qui la nostra ormai consolidata proposta di un reddito di inclusione deve tradursi in realtà. Ci siamo quasi: il duro lavoro di tutti questi anni dell’Alleanza contro la povertà sta finalmente giungendo al suo termine. Forse tra poche settimane – se il Senato l’approverà17 – potremmo finalmente avere anche in Italia una misura di contrasto alla povertà assoluta. Il Sia, già approvato, è la misura-ponte che ci condurrà al reddito di inclusione. È questa una riforma su cui non spendiamo altre parole perché da anni la proponiamo e la conosciamo. Aggiungiamo solo che il tema del lavoro – che è la vera novità di questo approccio sul reddito minimo – dovrebbe fare da battistrada anche ad una politica inclusiva per l’occupazione giovanile, a partire dal potenziamento della formazione professionale.
La terza ha che fare con la rappresentanza del popolo: la riforma dei partiti. E questa andrebbe fatta prima del referendum istituzionale. Perché l’inciso “per partecipare con metodo democratico a determinare la politica nazionale” contenuto nell’art. 49/Cost. non si legge solo come fine, perché esso riguarda anche i mezzi. Se si vuole determinare la politica nazionale, allora occorre partecipare
16 …e comunque non è la nostra battaglia: noi ci troviamo “a nostro agio” più con la Prima parte, dove si collocano alcuni principi e alcune dichiarazioni di “uguaglianza formale e sostanziale” che attendono di essere tradotti.
17 L’Alleanza contro la povertà (le 35 associazioni che propongono il Reis, cfr. www.redditoinclusione.it) sta sperimentando sulla propria pelle la fatica di proporre leggi in regime di bicameralismo perfetto!
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con metodo democratico, ovvero con modi di finanziamento e di selezione della classe dirigente entrambi chiari e trasparenti. Una maggiore trasparenza genera credibilità: è importante allora sapere chi finanzia e come si spendono i soldi, quale rapporto stabilire con le fondazioni collaterali e con quali modi consentire la propaganda elettorale. Una maggiore credibilità genera fiducia. È importante allora sapere come si arriva a certe nomine o ad altre designazioni, come regolare le primarie in modo serio: così si rafforzerebbe l’istituzione partitica – con un chiaro statuto e modalità di ricambio della classe dirigente – evitando così ridicole scissioni. Se si pensa a come si è rafforzata l’istituzione comunale con una normazione adeguata e coerente, ben al di là perfino delle sue reali possibilità, si capisce allora che la questione dei partiti è un elemento che concorre direttamente a creare bene comune. Ovvio che – a questo punto – si invochi anche noi una modifica della legge elettorale. La legge elettorale non può limitarsi ad esprimere una pur necessaria governabilità: lo deve fare coerentemente con l’idea di rappresentanza che intende suggerire, tenendo presente che le “sorgenti” di tale rappresentanza sono tre: i partiti politici, le organizzazioni della società civile, il territorio. E tenendo presente gli effetti che essa genera sull’equilibrio dei poteri.
Europa, la buona battaglia
E infine potremmo dire che oltre al popolo da rappresentare, c’è anche un’altra “buona battaglia” da sostenere, quella per la creazione del popolo europeo: l’Europa, nostra origine e nostro destino. Sullo sfondo di tanto dibattito politico c’è lei, la vera posta in gioco, oggi. Noi vogliamo essere tra coloro che l’Europa la difendono e la rilanciano come tema popolare, perché l’Unione europea ha bisogno di riscoprire un senso di marcia: un senso. Senza contrapporre – anche noi! – l’Europa dei popoli e quella “dei burocrati” di Bruxelles, che sarebbe – ancora una volta – riproporre il cliché che oppone le istituzioni alla gente.
Osserviamo con preoccupazione che si stanno manifestando alcuni segnali che sembrano far tornare indietro di un secolo l’orologio della storia: il nazionalismo e il separatismo, la xenofobia e il razzismo, la menzogna propagandistica ordita anche con tecniche complottistiche e la ricerca di scorciatoie autoritarie. Il mondo brulica di queste pustole ideologiche che degenerano in guerre, in stragi, in un clima di terrore e violenza. Questi segnali chiedono come risposta grandi sogni, nuove letture del mondo capaci di restituire una speranza sostenibile e onesta. Ci pare invece di vivere un sentimento di decadenza: l’impressione è che si sia chiusa una lunga fase felice della nostra storia e se ne sia aperta una di segno opposto18. Questo sentimento avanza e determina una condizione autunnale e malinconica, come un ineluttabile e incombente ritorno ad una fredda condizione pre- europea. Occorre invece recuperare lo spirito albeggiante di Ventotene, ma non tanto per celebrarlo, quanto per rilanciarlo, soprattutto assieme ai giovani che costituiranno la prossima generazione europea, quella di Erasmus e della mobilità intra-europea. I progetti per creare occasioni di studio e di lavoro per i giovani europei sono occasioni preziose per creare vicinanze, nuove forme di incontro, di far famiglia: un modo non astratto per creare un popolo. Ci possono essere “popoli europei”, ma non occorre esasperare le differenze: il popolo europeo può essere uno, all’interno del quale riconoscere diversi19 fili culturali. La differenza non implica destini… differenti!
Questi mesi saranno dunque importanti, per reagire al trauma della Brexit: in ottobre si vota in Austria, poi ci sarà il referendum italiano, a marzo si vota in Olanda (anche qui per il Leave o il Remain), poi le elezioni in Francia e – infine, forse la prova più importante – nel 2017 in Germania. Quale Europa uscirà dopo questa serie di esami? Oltre a questi “esami interni” ci sarà da verificare
18 Il riferimento è un pezzo di Ernesto Galli Della Loggia, pubblicato sul Corriere della Sera, dove si descrive questa condizione come di un malessere che scava come un tarlo nello spirito pubblico.
19 …ma non diversissimi! In fondo l’unità culturale europea, ben descritta da uno strepitoso scritto di George Steiner in Una certa idea di Europa (2006).
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la tenuta di un ruolo internazionale, perché intanto non possiamo affatto chiudere il mondo fuori da noi. In particolare le situazioni della Libia e della Siria richiedono all’Unione europea di favorire una composizione che non può non passare attraverso una politica estera europea comune. In questi teatri di crisi l’Europa deve tornare a recitare un ruolo di primo piano, che passa attraverso una decisa azione diplomatica che punti alla pacificazione e alla riconciliazione di popoli dilaniati da una guerra civile causata da interessi religiosi, economici e territoriali. Solo una visione politica che metta al primo posto la ricostruzione di un tessuto di convivenza e il rafforzamento della società civile può portare alla soluzione queste gravi situazioni conflittuali.
Infine solo un rapido – ma estremamente preoccupato – accenno al popolo turco, che sta assistendo alla realizzazione di uno Stato di polizia. La Turchia, che occupa una posizione importantissima nello scacchiere internazionale, ha rapidamente esaurito il desiderio di far parte della famiglia europea20 per assecondare le pulsioni autoritarie di un leader che – per logiche interne – cerca l’abbraccio anche con tradizionali avversari, quali i russi, che sanno muoversi con una spregiudicatezza che a noi europei non appartiene. La parola pace, mai come in questi anni, necessita di essere recuperata come una condizione per evitare il precipitare di quella che papa Francesco ha chiamato una terza guerra mondiale a pezzi. Forse sarebbe anche ora di ripensare a quell’esercito unico europeo che consentirebbe all’Unione di far fronte comune, di parlare con una sola voce, di evitare i possibili danni che la competizione elettorale statunitense potrebbe produrre.
Proprio per queste ragioni anche noi aclisti dobbiamo fare la nostra piccola parte, anzitutto recuperando un profilo e un modo di leggere il mondo attraverso una visione più internazionale. È una necessità per capire meglio chi siamo e a “quale livello” collocare le cose di casa nostra, di questo Paese profondamente europeo per vocazione.
Le Acli, una storia democratica e popolare
Dobbiamo fare la nostra parte anche rilanciando la democrazia del XXI secolo, perché quella del XX è in crisi. Noi aclisti sappiamo che c’è qualcosa che aiuta il popolo a creare la giusta democrazia, ad esprimere la propria voce nel giusto modo, quello più intonato per essere pienamente se stessi con coscienza delle proprie idee: e questo qualcosa è il libero dibattito pubblico, dove noi abbiamo sempre esercitato una funzione formativa. La Costituzione – in filigrana21 – già induce questa dimensione (descrivendo le caratteristiche del voto e dei partiti) Il nostro movimento ne ha sempre esplicitato con chiarezza la necessità. Perché le idee non maturano da sole, ma solo se esposte al sole e all’aria delle culture e all’impollinazione del confronto e del dialogo, anche quando duro e difficile. Proprio di questo tempo cogliamo la necessità di esercitare quella pedagogia popolare e costituzionale che diventa generativa per l’esperienza democratica. In questi mesi – come avevamo auspicato – le nostre Acli si sono mosse, spesso in modo autorevole, con interlocutori di prestigio e confronti serrati. Abbiamo realizzato oltre cento incontri in tutto il Paese e altri ancora sono in cantiere. Uno sforzo corale che ci permette di affermare che noi viviamo certi temi come un richiamo primordiale ad un’azione civile e politica. Ma è proprio così che continueremo quell’opera di pedagogia popolare e costituzionale che dà al nostro movimento un profilo così chiaro, così tipico.
Dobbiamo re-imparare non tanto a stare coi “bravi” – quelli che già frequentano la parrocchia, quelli che leggono i giornali e i libri, quelli che usano i prodotti equi e solidali, quelli che rispettano la natura, quelli che sono… “democratici” – ma a stare coi “meno bravi”, quelli che, diversamente da noi, non hanno una rete di formazione, un’occasione per capire e per partecipare. È con questi “meno bravi” che misuriamo la nostra capacità di essere creativi, di inventarci cose nuove: di essere
20 …anche perché da essa rifiutata!
21 Art. 48/Cost. co. II Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.
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veramente popolari!
Ed è così che vogliamo stare veramente nel popolo. È così che troviamo ragione di noi stessi, delle nostre origini. Le Acli sono una parte del popolo italiano, perché sono legate ad una storia che è passata anche da noi e che anche noi abbiamo contribuito a scrivere. Le Acli sono pure una parte del popolo di Dio, perché sentiamo il vincolo che ci unisce ad una storia che va oltre questa terra, perché sentiamo il rapporto che ci lega al cielo. È in queste vicende terrene e spirituali insieme che anche noi siamo diventati popolo. In questo popolo e con questo popolo abbiamo lottato, costruito, scritto, pensato, pregato, suggerito, gridato, proposto le nostre idee, fondato circoli, aperto recapiti del patronato e del Caf e scuole di Enaip, realizzato imprese agricole e commerciali. L’abbiamo fatto con passione, così come appassionate e appassionanti sono le vicende del nostro popolo. Per questo abbiamo scelto questo termine per accompagnare il tema di questo Incontro nazionale di studi. Ci siamo appassionati, certo, ma abbiamo contezza anche del fatto che la storia è passione, intesa come quell’oscillazione a tempi e intensità diverse fra gioia e sofferenza, tra vittorie e tragedie. In questa passione – il termine passio, per noi cristiani, rimanda ad un preciso vissuto – noi non facciamo finta di nulla: ci siamo e ci stiamo con le nostre idee e coi nostri servizi (che tante volte hanno dato una mano concreta), così come è stato per il popolarismo, così concreto, così come voluto da don Luigi Sturzo.
Da questo Incontro nazionale di studi ci aspettiamo il ritorno ad una idea sana di popolo, fatta di storia e di storie, di persone e di idee, di ispirazioni e di legittime aspirazioni. Ci aspettiamo di riaprire una stagione popolare, per trovare coerenza tra la nostra storia, le nostre idee, la nostra azione e il popolo tutto. In altri tempi qualcuno avrebbe concluso cantando “Avanti o popolo!”. Noi non avevamo quelle melodie neppure allora. Però la storia ci insegna che se il popolo non “va avanti”, se non diventa pienamente soggetto, rischia di diventare oggetto nelle mani di chi cerca solo i suoi interessi e non quelli di tutti. Comunque sì, avanti o popolo: non alla riscossa, ma su quel cammino duro e faticoso che prima o poi ci condurrà ad un mondo più umano.
Tratto dal sito acli: www.acli.it